Il talento è al tempo stesso la misura di un peso, che inclina la bilancia spostando più in basso il piatto sul quale poggia, e, per metafora, qualsiasi cosa (il denaro innanzitutto) definisca la supremazia di una parte sull’altra. Una misura, dunque, che diventa un valore non appena si lasciano perdere le scale numerarie per inseguirne altre di diversa natura. Il talento e il valore sono così trasmigrati dal solido terreno della quantità a quell’altro impalpabile dell’etica o dell’estetica, coinvolgendo le pulsioni del desiderio, la forza dell’ambizione. Eppure, quantitativo o qualitativo, sul talento si fondano graduatorie anche meritocratiche, capaci di attribuire valore all’invenzione, di segnalare l’estro di quell’esercizio del fare che è il fondamento di ogni produzione dell’artigiano, che si affida alle proprie mani, e poi alle macchine, purché a gestirle sia lui, con l’ingegno e le emozioni.
All’artigianato appartengono tutti i mestieri cancellati dalla macchina industriale, capace di sostituire il lavoro dell’uomo con una produzione seriale sempre eguale al prototipo: il moderno si è imposto celebrando il trionfo della copia. Se si disegnasse tra gli assi cartesiani il procedere della modernità, su quello verticale misurando la competenza come sull’altro il consenso, la curva che ne uscirebbe precipiterebbe verso il basso per correre diritta, parallela all’ascissa. Quel che conta nella modernità non è la qualità, oggetto di un’opinione fondata sul metodo comparativo, ma la quantità, niente affatto opinabile perché misurata secondo una scala numeraria. Il numero (di copie, di voti, di spettatori) è il nuovo dio del moderno, che detta legge, distribuisce meriti, decreta ascese e tracolli senza discussioni. Così la decadenza dell’artigianato coincide con il moderno che l’ha vinta, e al contrario il suo riapparire conferma che la modernizzazione è finita e un tempo nuovo è cominciato davvero, successivo al moderno, che del moderno deve imparare a fare a meno, senza comunque tornare indietro, perché agli uomini non è consentito. Tornare all’artigianato dopo la sua cancellazione nella modernità non può essere la restaurazione di un mondo scomparso, ha un senso ben diverso e più ricco, nel segno opposto del rinnovamento della tradizione nel tempo della discontinuità.
Si ricomincia dalle mani e si vuole sfuggire al calco, immettendo dove è possibile e merita un segno personale, che restituisca il piacere della sorpresa, la gioia della meraviglia. Nell’artigianato si ripropone il ruolo dell’abilità e della perizia, la forza dell’esperienza; c’è forte il primato dell’individuo, lo stupore dell’aura, il mistero del bello, la felicità della competizione, il furore del confronto; c’è, insomma, l’addio al moderno, ai suoi poco umani valori, e l’inizio di una nuova straordinaria avventura verso una meta sconosciuta e per questo non meno inquietante. Non saper far niente non è più l’aristocratica insegna dell’intellettuale moderno, ma il marchio di una sudditanza patita, di una servitù che dura, di una libertà non riconquistata. Dopo la modernità, dunque, resta questo tormento di Sisifo, che è, emozionante e irrinunciabile, la ricerca della «regola del talento».
Tratto da La regola del talento. Mestieri d’arte e Scuole italiane di eccellenza, Marsilio Editori, marzo 2014
Photo credit: Dario Garofalo