Il canto del corallo

Laura di Giovanna Nocito crea gioielli unici facendo “cantare” il corallo di Sciacca, un dono che il mare ha offerto alla cittadina siciliana quasi due secoli or sono. Erede di una famiglia la cui storia è stata scritta, generazione dopo generazione, da grandi personalità femminili, Laura ha ricevuto nel 2024 il riconoscimento di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere per il suo talento nell’arte orafa, e nell’intervista che segue ci racconta le appassionanti storie, quasi leggendarie, che l’hanno portata a fare del corallo il suo mestiere.

Ci racconta la storia del corallo di Sciacca?

È una storia unica e leggendaria, legata ad un evento eccezionale. Un giorno del 1831, la popolazione di Sciacca si svegliò terrorizzata da improvvisi boati e tremori, accompagnati da un forte odore di zolfo. Per capire l’origine di questo sconvolgimento, i pescatori uscirono in mare con le loro imbarcazioni e scoprirono che, a poche miglia dalla costa, era emersa una nuova isola, che sarebbe passata alla storia come l’Isola Ferdinandea. L’isola scomparve nel giro di pochi mesi sotto la superficie del mare, ma preannunziò l’inizio di un’epopea che portò, dal 1875 in poi, alla scoperta di tre immensi giacimenti di corallo, cresciuti sulle pendici dei vulcani sottomarini di cui il nostro mare è costellato, e poi accumulatisi in profonde sacche sottomarine per migliaia e migliaia di anni. Il corallo di Sciacca è nato così: è un dono del mare e del tempo.

Come si è inserita la sua famiglia in questa storia?

Tutto è partito da una donna, la mia antenata Concetta Venezia, figlia di commercianti, divenuta sposa nel 1905 di Peppino Nocito, suo cugino, ultimo rampollo di una famiglia di nobili origini. Peppino non voleva che sua moglie lavorasse, sarebbe stato disdicevole per il suo status sociale, ma la componente femminile della mia famiglia si è fin da allora distinta per una certa ribelle caparbietà. Concetta, incapace di adattarsi alla vita comoda, approfittò dell’arrivo nell’albergo di proprietà di famiglia di un rappresentante di gioielli e, fattisene lasciare alcuni, cominciò a venderli alle amiche di nascosto dal marito. Quando Peppino se ne accorse non fu un momento facile. Non sappiamo i particolari di quello che accadde. Sappiamo solo che, quattro anni dopo, la coppia era ancora ben salda, l’albergo non c’era più e Concetta era la titolare della più importante gioielleria di Sciacca. Dalle sue mani passarono montagne di corallo, la grande epopea della pesca era ancora in corso e finì solo nel 1914, con l’inizio della Grande Guerra.

Come si distingue il corallo di Sciacca?

È un corallo unico per durezza, lucentezza e compattezza. Ha una gamma di colori che vanno dal rosa pallido all’arancio intenso, a volte segnato dal tempo, ed è completamente ecosostenibile in quanto trattasi di corallo morto, subfossile. Per raccoglierlo non si distruggono organismi viventi.

Quali sono le tecniche e le principali sfide della lavorazione del corallo?

Lavorare il corallo è un mondo a parte, scandito dal suo “canto”, il tintinnio che emette quando due pezzi si urtano. Non è possibile automatizzare nulla, deve essere tutto fatto manualmente, meglio se con strumenti realizzati o modificati ad hoc, in modo da poterne gestire le irregolarità e l’unicità, e secondo tecniche antiche che vengono tramandate unicamente dai maestri corallari. Lavorare il corallo è un’opera di scultura vera e propria, che si fa in tandem con il materiale stesso: tu fai quello che il corallo ti lascia fare, devi cogliere quello che ti suggerisce. Nella mia formazione, la svolta è stata la possibilità di apprendere il mestiere da un maestro straordinario come Platimiro Fiorenza che, nonostante le perplessità iniziali dovute all’arrivo di una donna in un mondo di soli uomini, mi ha infine accolto nella sua bottega e insegnato i segreti della sua antica arte.

Quella della vostra famiglia è una storia in cui le donne sono sempre state protagoniste. È ancora una sfida?

A partire da Concetta, le donne sono sempre state protagoniste della storia imprenditoriale della nostra famiglia, con l’unica interruzione di un periodo in cui mancò l’erede femminile. Mio padre fu figlio unico e volle fare l’ingegnere. Io ho riaperto l’attività nel 2005. La verità è che, in Sicilia, sotto le apparenze, vige un vero matriarcato e la nostra terra è piena di storie di donne indipendenti, anche imprenditrici, come Donna Franca Florio. Questo non vuol dire che le sfide non siano tante e dure, anche oggi. Ho dovuto lottare, anche per la mia formazione.

Quando realizza gioielli, cosa guida la sua creatività?

Ogni giorno, l’ispirazione nasce da quello che mi circonda: il mare, il sole, la natura, le tradizioni della mia terra, non solo quelle relative ai gioielli ma anche ad altri mestieri, come la cartapesta e la ceramica.

Cosa ha significato per lei il riconoscimento MAM – Maestro d’Arte e Mestiere?

Ho accolto la notizia con incredulità: mi sono sentita quasi paralizzata, prima di concedermi all’entusiasmo. Non mi sentivo all’altezza di raggiungere il medesimo traguardo del mio maestro Platimiro Fiorenza, ma allo stesso tempo il premio rappresentava il riconoscimento che sentivo di meritare per la mia passione, per le difficoltà incontrate nel mio percorso. Non è solo un traguardo, è anche un nuovo punto di partenza, perché il corallo è un mondo infinito, c’è ancora moltissimo da imparare.

Contatti
Nocito Gioielli
Via Venezia, 8A – Sciacca (AG)
+39 0925 85386 – info@nocitogioielli.com
www.nocitogioielli.com

Beatrice Barni: l’artigiana delle rose

Per celebrare l’arrivo della primavera, la Biblioteca degli Alberi di Milano si è arricchita di un nuovo roseto che ospita anche la Rosa Mestieri d’Arte, una varietà creata dal vivaio pistoiese Rose Barni per la Fondazione Cologni. La scienziata, contadina e artigiana che ha reso possibile la nascita di questa varietà – poetica metafora di un mondo delicato e potente, che trasforma la materia in bellezza – è Beatrice Barni, discendente della famiglia che da quattro generazioni dà vita a nuove espressioni di bellezza, ed esperta in ibridazione, mestiere per cui è stata anche premiata come MAM – Maestro d’Arte e Mestiere nel 2018. Un mestiere indubbiamente unico e peculiare nell’universo dell’artigianato, di cui Beatrice ci ha svelato alcuni dei molti segreti.

L’ibridazione delle rose è un mestiere poco conosciuto, ci vuole brevemente raccontare come funziona?
A differenza della moltiplicazione vegetativa come l’innesto o la talea, l’ibridazione è una riproduzione sessuata: è l’unico metodo che permette l’ottenimento di una nuova varietà di rosa, grazie alla combinazione del polline proveniente da una varietà, con la parte femminile (pistilli) di un’altra varietà. In pratica, l’uomo si sostituisce a ciò che fanno già in natura gli insetti o il vento, ma in maniera più mirata e specifica.

Forme, colori, profumi, resistenza, adattabilità, ciclo di vita: quali sono gli elementi su cui si può intervenire?
La rosa è un genere assai eterogeneo, che presenta variabilità in aspetti di tipo estetico (forma e colore dei fiori, profumi di diversa composizione), ma anche in quelli vegetativi (portamento, tipo di fogliame, presenza/assenza di spine, formazione di bacche ornamentali). L’ibridazione cerca di selezionare le varietà sempre più interessanti, mettendo comunque al primo posto la resistenza alle malattie e la capacità di rifiorire per tutta la stagione.

Fino a che punto si riesce a controllare il risultato?
Esistono delle linee guida, nate solo dall’esperienza e dall’osservazione, che possono essere seguite nella ricerca di un certo carattere, ma non esiste niente di certo e spesso andiamo incontro a sorprese nei risultati.

La vostra famiglia opera nella floricultura dalla fine dell’Ottocento. Quanto è importante nel vostro mestiere tramandare la conoscenza?
La trasmissione dell’esperienza è uno degli aspetti fondamentali della nostra attività, dal momento che tutte le conoscenze sia in ambito produttivo che in quello logistico sono frutto di anni di prove e sperimentazioni, in risposta alle più diverse condizioni ambientali.

Lei crea rose che non esistono in natura: si sente più contadina, scienziata, artigiana o creatrice
Nel nostro lavoro occorre essere eclettici e coprire tanti ruoli insieme, nel mio lavoro sono fortunata per poter sperimentare diverse attività, che mi portano ad essere in diretto contatto con la natura, ma anche con tante persone.

Avete dedicato rose a tanti nomi famosi. Scegliete le caratteristiche della rosa sulla base del personaggio o vi fate ispirare dalla rosa per abbinarle un nome?
Nella nostra attività di ibridatori, ci siamo trovati spesso a dover cercare la varietà giusta per essere dedicata ad un personaggio famoso, ma possono capitare anche casi inversi, in cui è importante individuare il nome appropriato ad un nuovo ibrido, con caratteristiche definite.

Negli ultimi anni il suo lavoro ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, come il premio Talent du Luxe et de la Création in Francia e il MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, in Italia. Quali sono le prossime sfide?
Più che parlare di sfide, amerei sottolineare la tenacia e la curiosità nello scoprire e sperimentare ciò che ci riserva la natura. Il mondo della Rosa è estremamente affascinante e in continua evoluzione, mio nonno sosteneva che la rosa perfetta è quella che deve ancora venire.

ROSE BARNI

Via del Casello, 5
Pistoia
+39 0573 380464
info@rosebarni.it
www.rosebarni.it

 

Bevilacqua: la ceramica per raccontare la Sicilia al mondo

Ispirati dalla vena artistica materna, nel 1997 Giuseppe e Antonio Bevilacqua fondano in un piccolo centro in provincia di Caltanissetta un laboratorio di ceramica, dove realizzare con uno stile più contemporaneo – ma con le tecniche tradizionali – i tipici manufatti della ceramica di Caltagirone e di Santo Stefano di Camastra: teste di moro, pigne, tavolini. Con passione e tenacia i fratelli raggiungono la consacrazione in un tempo relativamente breve, riuscendo a stringere collaborazioni di altissimo profilo come quelle con Dolce&Gabbana, e ottenendo nel 2022 il titolo di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere della Fondazione Cologni per i Mestieri d’Arte.    

Ci raccontate come è iniziata la vostra storia nel mondo della ceramica?

Tutto inizia nel 1997. Un’avventura che parte da nostra madre, che da sempre dipinge e che ci ha tramandato la sua passione artistica. Ci piace dire che abbiamo scommesso su noi stessi, accompagnati da un pizzico di follia e da una grande tenacia. Abbiamo aperto una piccola bottega nel centro storico di Campofranco, a pochi chilometri dalla splendida Valle dei Templi di Agrigento, e lì abbiamo iniziato a creare oggetti che raccontano la nostra storia, la tradizione della ceramica siciliana e il territorio in cui viviamo. Un laboratorio dove i nostri manufatti prendono vita, fuori dal classico itinerario delle tradizionali ceramiche siciliane.

Che importanza ha il territorio, la Sicilia, la tradizione di Caltagirone, nella vostra attività?

Il legame con il nostro territorio è fondamentale. Abbiamo attinto dalla tradizione di Caltagirone e Santo Stefano di Camastra, creando però un nostro stile distintivo. Ogni oggetto plasmato è una piccola opera d’arte, unica ed irripetibile, interamente realizzata a mano. Dalla lavorazione dell’argilla alla sua modellazione fino al decoro e alla cottura ogni oggetto prende vita dalle nostre mani.

Avete delle specializzazioni tra voi due o siete “intercambiabili”?

Lavoriamo all’unisono, ci completiamo e ci capiamo con un semplice sguardo. Lavoriamo tutti i giorni a stretto contatto condividendo tutto, sempre insieme ed uniti. Un’intesa che ci permette di lavorare in armonia e nel totale rispetto l’uno dell’altro.

Il vostro stile e la vostra tecnica sono strettamente tradizionali?

La tradizione è la nostra cifra artistica. Tutti i pezzi sono creati in argilla bianca per scelta, in quanto i colori su questa base risultano essere più brillanti e intensi. Argilla, acqua, pigmenti, affidabilità e passione: così nasce uno dei nostri prodotti. La tradizione è la base da cui partiamo e la traghettiamo ai giorni nostri. Passato, presente e futuro al tempo stesso si fondono nei nostri manufatti. La tradizione millenaria della ceramica siciliana, il design, l’artigianalità e l’innovazione si mescolano dando vita a prodotti, interamente realizzati in Sicilia, in cui ogni pezzo ha il sapore dell’esclusività. Cultura della materia, conoscenza delle tecniche di produzione, di decorazione e cottura, rendono i prodotti di altissimo livello qualitativo. Ogni oggetto è espressione di un design unico ed esclusivo capace di interpretare il gusto della tradizione strizzando l’occhio al futuro. Teste di moro, tavolini, e pigne, da complementi d’arredo diventano opere d’arte esclusive.

Voi negli anni avete instaurato importanti collaborazioni professionali come quella con il marchio Dolce&Gabbana. Qual è il segreto per essere scelti da una realtà così prestigiosa?

Poter lavorare con un marchio di moda così importante e conosciuto nel mondo è un onore per noi. Consigliamo a tutti coloro che vorranno accogliere il nostro suggerimento di lavorare tanto, con impegno, puntualità e passione. Inoltre è fondamentale la capacità di trasferire perfettamente nei manufatti quello che il committente chiede e desidera. Siamo sempre pronti a creare prodotti ad hoc seguendo le indicazioni che ci vengono date.

Quali opportunità offre oggi ad un giovane artigiano il mondo della comunicazione?

La comunicazione è una vetrina sul mondo, aiuta a portare il proprio lavoro fuori dal laboratorio e così a farsi conoscere e apprezzare da un pubblico sempre più vasto e desideroso di avere all’interno delle proprie case, negli uffici e negli atelier prodotti della tradizione siciliana con un tocco contemporaneo.

Quali sono le vostre prossime sfide?

Le sfide, per noi artigiani, sono tante, tutti i giorni. Forse quella a cui entrambi aneliamo maggiormente è quella di riuscire a portare la nostra arte fuori dai confini nazionali. Vedere i nostri manufatti posizionati nei più svariati contesti internazionali ci riempie di orgoglio e soddisfazione e ci spinge a fare meglio tutti i giorni.

 

CERAMICA BEVILACQUA

Piazza Francesco Crispi, 24 – Campofranco (CL)

+39 0934 959390 – info@ceramicabevilacqua.com

www.ceramicabevilacqua.com

 

 

Tarsie Turri: tradizione e visioni contemporanee

Rita Turri, Maestra d’Arte e Mestiere 2024 nel campo dell’intarsio, ha acquisito dal padre Carlo, fondatore della bottega Tarsie Turri di Anagni (FR), la tecnica e la sensibilità per trovare l’armonia in cui far convivere poche decine o migliaia di tasselli, pazientemente composti in un raffinato equilibrio geometrico e cromatico.

Cominciamo dalla tecnica dell’intarsio: quanto tempo richiede la realizzazione di un’opera di medie dimensioni, e quali sono le fasi di realizzazione?

Ovviamente, i tempi variano molto in base alla complessità del progetto e alla sua specificità. Al netto delle fasi preparatorie, tra l’inserimento del primo tassello nella nuova tarsia e la conclusione del lavoro possono passare pochi giorni, settimane o addirittura mesi.

La tecnica di lavorazione si compone di diverse fasi. Dapprima si riproduce su un sottile foglio di legno, chiamato essenza o piallaccio, un decoro composto da definite linee di contorno. Poi, mediante un trincetto, le singole parti vengono gradualmente incise e sostituite con altre essenze, di tonalità e venatura adatte a conferire al decoro una rappresentazione spaziale e cromatica ideale.

Terminata la lavorazione, l’originario piallaccio – ora composto da decine, centinaia o migliaia di inserti diversi, a seconda della grandezza e complessità del decoro – riproduce il disegno concepito con la tecnica dell’intarsio cosiddetto “a coltello”. Ogni opera viene poi sottoposta a una serie di lavorazioni conclusive – incollaggio, levigatura e lucidatura – che ne preservano nel tempo forma e fascino.

La tradizione del Presepe Napoletano per Marcello Aversa

Nel meraviglioso racconto del Maestro sorrentino emerge tutta la sua infinita passione e dedizione per un arte antica che si nutre di valori tradizionali, di autenticità, di impegno e di grande gioia, tanto per l’artigiano quanto per chi può godere delle sue creazioni.

Qual è la sua storia e il suo percorso? Come nasce la passione per il presepe napoletano?
Credo di aver mosso i primi passi nella fornace di famiglia, in un piccolo opificio nel casale di Maiano, nel cuore della Penisola Sorrentina. Qui si producono laterizi per forni a legna fin dal Quattrocento. Già da piccolo ero attratto da quella massa morbida, che a seconda della forma usata diventava ora un mattone, ora un quarto di luna destinato alla pavimentazione di un forno.
Quando avevo diciotto anni mio padre morì e, forse per la prima volta, mi trovai di fronte ad un bivio importante: continuare a studiare o seguire le sue orme. Onestamente la scelta non fu difficile, mi accontentai del mio diploma di ragioniere e iniziai a lavorare nella fornace. Intanto un’altra passione mi rapiva sempre più, quella per il presepe napoletano. In fondo, in un luogo così pregno di tradizioni, non era difficile che un ragazzo partecipasse in famiglia alla costruzione di quel plastico che avrebbe accolto il Bambino la notte del 24 dicembre. Così iniziai la gavetta, aiutando mio padre e mia zia che allestivano il presepe con sughero, carta stagnola, pietrine, muschi e tutto quello che poteva avvicinare quel paesaggio così precario alla realtà.
Ad un certo punto, con quell’orgoglio che contraddistingue la giovinezza, mi misi in proprio ed iniziai a realizzare piccoli presepi con tufi e pezzetti di mattoni recuperati dalla fornace. Col tempo, gli spazi di casa si rivelarono un limite per la mia fantasia, così iniziai a sfruttare alcuni locali adiacenti la cappella del casale dedicata a San Rocco. Anch’essa ben presto non riuscì a contenere più montagne, colline, fiumi e villaggi, così iniziai a peregrinare per le chiese della Penisola Sorrentina.
Quando sei giovane, sei portato a pensare che la grandezza di ciò che fai sia direttamente proporzionale alla gratificazione che ne verrà. Poi, col passare degli anni, ti accorgi che non è tanto la grandezza, quanto quello che riesci a comunicare che fa la differenza. Fu così che negli anni novanta, con la stessa creta di mattoni, cominciai a modellare piccoli presepi, accorgendomi con stupore che tutto quello che realizzavo in grandi spazi, riuscivo a contenerlo nel palmo di una mano. In quei piccoli microcosmi immortalavo tutto quello che mi circondava: i casolari sorrentini, i ruderi romani della Villa Pollio Felice adagiati sugli scogli a picco sul mare, la straordinaria vegetazione della mia terra, gli antichi costumi della mia gente.
Partecipando a diverse mostre collettive, col passare degli anni mi resi conto che da parte del pubblico cresceva un discreto consenso nei confronti di quelle terrecotte. Mi trovai così di fronte ad un altro bivio: continuare la tradizione di famiglia o iniziare un nuovo cammino. Tra lo stupore scettico di parenti ed amici scelsi la strada più difficile, lasciai la fornace e iniziai a rincorrere la mia passione. Dalle forme lineari dei mattoni passai a quelle più articolate dei presepi.
I primi tempi si mostrarono molto difficili, soprattutto a livello economico, così iniziai a modellare figure singole da poter vendere nella strada più famosa al modo per i presepi: San Gregorio Armeno a Napoli. Ora lo ricordo e mi viene spontaneo un sorriso, ma quante volte quelle Madonne, santi Giuseppe, zampognari, angeli e pastori hanno viaggiato con me, sul treno che collega Sorrento a Napoli, sia all’andata che al ritorno.
La svolta ci fu nel 2001, quando riuscii ad aprire una bottega nel centro storico di Sorrento, con grandi sacrifici ma aiutato dal mio fratello maggiore. Da allora, oltre ai presepi ho iniziato modellare anche altri soggetti legati alle tradizioni della mia terra, come le processioni degli incappucciati della Settimana Santa, così care a chi vive questi luoghi, scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, Alberi della Vita, croci sulle quali, con diverse scene, racconto la storia della Salvezza.

Oggi come si mantiene viva una tradizione importante come quella del presepe napoletano?
Una delle cose più difficili per la società contemporanea è mantenere e tramandare non solo le tradizioni ma tutto quello che riguarda l’autenticità del nostro Paese. Il mondo corre troppo veloce e noi con lui: sarà per questo che non riusciamo più a vedere l’essenziale, quello che, come diceva Antoine de Saint-Exupéry, non si vede bene che col cuore.
Oggi nuovi termini hanno arricchito – o indebolito, dipende dai punti di vista – il nostro linguaggio, lasciando ai margini quelli che per secoli sono stati veri e propri insegnamenti e modelli anche per altri popoli: arte, cultura, tradizioni, solidarietà, passione. È proprio la passione di tante donne e uomini che può ridurre sensibilmente quel divario che si è venuto a creare tra la vecchia e la nuova generazione, sempre più lontana dalla nostra storia, sempre più vicina a storie che non ci appartengono. Questo vale anche per il presepe napoletano.

Qual è l’opera più importante, o quella più complessa realizzata finora?
Sono legato a tante opere, forse perché nel realizzarle il mio primo obiettivo è stato quello di soddisfare soprattutto me stesso. Tuttavia, c’è un’opera che, se mi è concesso il termine, amo di più. È un Albero della Vita, che è stato collocato nel Duomo di Mirandola dopo i lavori post terremoto: una croce alta due metri e mezzo, sulla quale è raccontata la storia della Salvezza attraverso le scene più salienti. Prima della definitiva sistemazione, Vita Semper Vincit – questo il titolo dell’opera – è stata esposta a Sorrento nella Cattedrale, a Napoli nella Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi e a Firenze nella Basilica di Santo Spirito.

Da dove viene l’ispirazione per le sue opere?
Non lavoro mai su un progetto a tavolino. L’ispirazione è istantanea, viene dall’immaginazione, la stessa che ha un bambino che gioca, e credo che questo sia l’unico modo per creare piccoli mondi. In questo mi sento fortunato perché, pur facendo sacrifici, pur sottraendo tempo alla mia famiglia, non ho mai pensato che la mia fosse una fatica ma un vero e proprio divertimento.

Quanto tempo richiede la realizzazione di un presepe di medie dimensioni?
È proprio per questo motivo che non ho mai dato importanza al tempo, credo che nei lavori creativi sia relativo. Nel mio caso, per esempio, ci sono giorni nei quali riesco a fare molto più di quello che avevo prospettato. In altri, invece, capisco che è meglio lasciare tutto e godermi le bellezze del territorio. Poi, ci sono le notti… anche quelle dovrebbero essere conteggiate? Notti in cui non dormi per la paura che quella scintilla, quell’idea si possa perdere nel sonno. Notti che passi in bottega, turbato da una incertezza che non riesci a risolvere, e quindi togli e posizioni freneticamente pezzetti di creta fino a trovare la giusta soluzione. Comunque, di tempo ce ne vuole, anche se resta l’ultimo dei miei problemi.

Ha appena ottenuto il titolo di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, riconoscimento biennale della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte a maestri artigiani che si distinguono per talento, saper fare e altissima competenza. Com’è stato ricevere questo riconoscimento?
Avere questo riconoscimento a cinquantotto anni, a quaranta dall’iscrizione alla Camera di Commercio di Napoli, mi ha fatto capire che, in fondo, un segno lungo il mio cammino l’ho lasciato, e questo mi rende immensamente felice e orgoglioso. Allo stesso tempo, sento ancora di più il peso della responsabilità nei confronti di questo straordinario mondo dell’artigianato artistico. Paradossalmente, soprattutto nei luoghi turistici, un turismo intensivo ha sconvolto l’identità dei territori e tanti artigiani, anche per sopravvivere, si sono trovati a trasformare le loro produzioni basandole più sulla quantità che sulla qualità. Ora, ancora più di prima, farò di tutto per non vendermi alle mode e alle circostanze.

Organizza corsi e laboratori per tramandare quest’arte, o sarebbe disposto a trasmettere le sue conoscenze a chi volesse apprendere il mestiere?
Lo faccio da anni, soprattutto nelle scuole, spesso aiutato da altri amici artigiani. In questi ultimi anni, quello che manca di più è il racconto. Da una parte c’è una carenza di figure carismatiche, che sappiano raccontare, e dall’altra c’è chi non ha più voglia di ascoltare: soprattutto i giovani, stanchi di essere traditi da una società sempre più distratta. Ecco, il maestro artigiano può – attraverso i suoi gesti, la sua passione, la sua storia – trasmettere i suoi saperi e alla fine anche questo può diventare un’arte, l’arte del tramandare. Troppo spesso, anche in un recente passato, la tomba dell’artigiano è divenuta – per gelosia o per ignoranza – la cassaforte dei suoi segreti, ed è così che tante attività sono scomparse. Questo non possiamo più permettercelo. Dobbiamo trovare un modo per entrare nel mondo della scuola o cercare di accogliere i ragazzi nelle nostre botteghe, provando in tutti i modi ad appassionarli, anche avvicinandoci al loro linguaggio.
Immagino un luogo dove possano convivere più laboratori, nei quali maestri liutai, orafi, ceramisti, ebanisti, intarsiatori possano lavorare ed essere osservati, perché tutto inizia guardando mani che lavorano. Il mio ricordo va alle parole dello scrittore Mario Stefanile, che così racconta una sua visita a San Gregorio Armeno: ”poi guardavo gli artigiani più giovani, dal volto patito, gli adolescenti dagli occhi cupi di olive greche, la sciarpa di lana rossa intorno al collo gracile, la tosse dentro il petto: e sognavo di essere uno di loro, di stare anch’io a manipolare la creta, ad appallottolarla, a stenderla, a farle assumere movimento e vita, grazia e dolcezza”.

Tiziana Grassi e l’Ospedale delle Bambole: un luogo magico, custode di ricordi e di storie

Immergersi in un’esperienza inaspettata: un vero e proprio paradiso per i bambini, che possono recarsi in questo luogo, soprattutto sotto Natale, per dare una nuova vita alle loro bambole e ai loro giocattoli, valorizzando ciò che hanno già.

Come nasce l’idea dell’Ospedale delle Bambole e qual è la storia di questa bottega-museo?
L’insegna “Ospedale delle Bambole” venne affissa fuori dalla bottega del mio bisnonno, in via San Biagio dei Librai 81 a Napoli, nel 1895. Luigi Grassi era scenografo del teatro dei pupi e spesso si trovava ad aggiustarne qualcuno che in battaglia perdeva un arto o la testa. Veniva chiamato ‘dottore’ perché portava sempre un camice, per non sporcarsi di vernice. Un giorno, una signora gli portò una bambola rotta e gli chiese di provare ad aggiustarla: ci riuscì e nel quartiere si sparse la voce che c’era un dottore che curava le bambole. Ben presto la bottega si riempì di pezzi di bambole e una signora passando di lì esclamò “Me pare o ‘spital de’ bambule” (mi sembra l’ospedale delle bambole). Il mio bisnonno si illuminò e senza perder tempo prese una tavola di legno e con una vernice rossa scrisse “Ospedale delle Bambole” e vi appose una croce.
Dopo di lui fu il turno di Michele, mio nonno, Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana, che gestì la bottega negli anni della guerra e si dice riparasse le bambole “al prezzo di un sorriso”. Il laboratorio ottenne la prima fama con mio padre, Luigi Grassi, capace di tenere viva l’attività in un momento in cui il centro storico era palcoscenico di faide della camorra. La sua bottega fu definita “la lampada di Aladino”: l’unico posto che emanava luce e attirava turismo in anni di terrore e sconforto per i commercianti di Spaccanapoli.
Tappa per gli intellettuali del tempo e per molti artisti: Renzo Arbore, Marisa Laurito, Roberto de Simone, Peppe Barra, i De Filippo… solo per citarne alcuni.
Poi sono arrivata io e, dopo anni trascorsi a mantenere viva quest’arte nel mondo del restauro negli anni del consumismo, otto anni fa ho deciso di trasferire la bottega di 18 mq nelle scuderie di Palazzo Marigliano: un laboratorio-museo di 150 mq che potesse raccontare la nostra storia, accogliere tutto quello che le tre generazioni che mi precedono hanno conservato, con cura certosina, all’interno di magazzini sparsi nel centro storico, e far “rinascere” il tema del restauro, raccontando ai nostri visitatori quanto è importante non abbandonare un oggetto amato.

Simone Cenedese: alto artigianato e design contemporaneo nel vetro, tra i colori della Laguna

Simone Cenedese ha ereditato la vetreria dal padre Giovanni, che la aprì negli anni ‘70 a Murano. Da subito la fornace si è affermata come un’eccellenza nella lavorazione artistica del vetro: Simone, grazie al suo talento e al suo spirito di innovazione, l’ha resa un punto di riferimento internazionale anche per molti designer che desiderano sperimentare con il vetro di Murano, e dar forma alle loro idee.
Negli anni il maestro ha maturato uno stile unico, realizzando oggetti originali e dal gusto contemporaneo. I suoi vetri, puri e brillanti, sono ottenuti attraverso una miscela segreta di minerali. Le sue creazioni sono disponibili in vari colori e personalizzabili su richiesta, anche con l’applicazione di foglia d’oro o d’argento e di altre finiture particolari.
L’azienda realizza inoltre grandi opere d’avanguardia che vengono esposte in prestigiosi spazi pubblici e concept store. La fornace e lo showroom apriranno le loro porte al grande pubblico, con visite guidate e altre esperienze, in occasione di “Homo Faber in Città”, iniziativa curata da Fondazione Cologni, collaterale alla grande mostra “Homo Faber: The Journey of Life”, promossa da Michelangelo Foundation a Venezia, presso l’Isola di San Giorgio Maggiore.

Qual è la sua storia e come si è avvicinato alla lavorazione del vetro?
In realtà non potrei indicare il momento esatto in cui mi sono avvicinato al vetro; fin da piccolo ho respirato “aria di fornace” nella vetreria di mio padre. Ho sempre visto lavorare il vetro e per me è stato quasi naturale iniziare a farlo anche io.

Per il suo lavoro, che importanza ha avuto il legame con il territorio e l’isola di Murano?
Fondamentale. Il mio legame con l’isola di Murano è molto forte. Mi ha influenzato a 360° con le sue mille sfaccettature, non solo in termini di formazione professionale.
Tutto quello che mi circonda mi ha stimolato e ispirato: i rumori degli attrezzi, i forni accesi, i colori della laguna, il profumo della salsedine, il vento, i colori del tramonto. Tutto questo è dentro alle mie opere.

Attombri: gioielli-scultura senza tempo, tra moda, design e arti applicate

Attombri è un laboratorio artigiano a Venezia, dove il vetro, combinato con altri materiali come il rame e l’argento, diventa bigiotteria e complemento d’arredo.
Dalla fine degli anni ’80 i fratelli Stefano e Daniele Attombri interpretano la storia, le tecniche e le potenzialità di questo materiale in chiave contemporanea, dando vita ad accessori ed elementi che uniscono moda, design d’interni e arti applicate.
Realizzano lampade, oggetti di decorazione e d’uso, ma soprattutto estrosi gioielli: tutti pezzi unici di fattura artigianale, anche su commissione: oggetti d’arte estrosi e senza tempo, che continuano la tradizione delle “perlere” veneziane, combinata a tecniche di loro invenzione e ad influenze etniche e liberty.
Le loro opere sono stati pubblicate ed esposte in tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, fino al Giappone. Hanno vinto il premio “New Talent 2006” del More, fiera del gioiello di Milano. Hanno collaborato con realtà prestigiose, come Dolce & Gabbana, Romeo Gigli e Pauly.

Qual è la vostra storia e come vi siete avvicinati al mondo del vetro?
Io e mio fratello abbiamo iniziato la nostra attività più di 37 anni fa, in una Venezia completamente diversa da quella di oggi.
Abbiamo avuto la fortuna, nei primi anni ‘90, di entrare nella fabbrica della Veneziana Conterie a Murano, proprio nel momento in cui stava chiudendo i battenti per sempre.
Abbiamo visto un mondo che sarebbe finito con quella chiusura, e abbiamo capito che il nostro lavoro doveva essere incentrato sul portare avanti quella tradizione. Così abbiamo cominciato ad acquistare quelle perle, per farle rinascere con un design più contemporaneo.

Constance Schürch è la vincitrice del Concorso “Artigiano del Cuore” 2024

Constance Schürch è cresciuta nel sud del Cile, ha studiato design e, dopo qualche anno di lavoro come progettista per importanti istituzioni, si è resa conto che la sua vera vocazione era creare gioielli con le sue mani.
Grazie a una borsa di studio, si trasferisce a Firenze nel 2015, per imparare le tecniche dell’alta gioielleria italiana accanto ai migliori maestri. Oggi ha il suo laboratorio nel centro della città, dove realizza gioielli esclusivamente su misura.
La vincitrice della settimana edizione di “Artigiano del Cuore” (2024), racconta la sua storia e i suoi obiettivi futuri, che il premio previsto dal Concorso contribuirà a realizzare.

Complimenti per la vittoria! Come hai vissuto il concorso Artigiano del Cuore?
È stata un’esperienza esaltante e arricchente. Dal momento in cui mi sono candidata e sono stata contattata da voi, ho trovato ogni fase del processo di selezione divertente e stimolante. Essere scelta tra i primi 10 finalisti di un concorso nazionale in Italia mi è sembrata una vittoria in sé, un riconoscimento dell’impegno che ho dedicato alla mia passione, alla mia vita in bottega, ai miei gioielli unici e fatti a mano qui a Firenze.
Ciò che ha reso questo viaggio davvero incredibile è stato il sostegno e la collaborazione della comunità. I loro voti e il loro incoraggiamento sono stati fondamentali in tutto il percorso, rendendolo un’esperienza profondamente emotiva e potente fino alla fine. È stata una conferma del fatto che un’artigiana, al giorno d’oggi, deve essere molto legata alla gente, perché la nostra arte è condivisa con le persone, è per le persone, e se sei flessibile e disponibile ad ascoltare, allora sei arrivata a creare qualcosa di speciale per qualcun altro.
Questa vittoria non è solo mia, ma è un risultato condiviso con tutti coloro che hanno creduto nel mio lavoro, mi hanno sostenuta e hanno sentito che sfidare quello che sembra impossibile per perseguire un grande sogno, può avere dei grandi risultati.

Martina Vidal: la tradizione del merletto di Burano diventa esperienza

L’Atelier Martina Vidal porta avanti la tradizione del merletto di Burano da ormai quattro generazioni. Nato come una piccola bottega a gestione famigliare da un’idea di Martina Vidal, il brand confeziona oggi biancheria di lusso per la casa e per la persona, e si è dotato di un elegante showroom sull’isola di Burano, nella laguna veneta.
Le collezioni sono frutto di passione, esperienza e creatività, rigorosamente Made in Italy, realizzate a mano con tessuti di qualità.
Oltre al negozio e all’attiguo Museo del Merletto, Martina Vidal ha allestito il Venice Secret Garden: un luogo di relax e di piacere, un giardino da cui ammirare le bellezze dell’isola gustando i tipici biscotti buranelli. Grazie al continuo impegno nella didattica e nella divulgazione di quest’arte, negli anni l’atelier è diventato un luogo dove il merletto non è solo una tecnica da preservare, ma un’esperienza contemporanea da vivere in prima persona.

Qual è la tua storia e come ti sei avvicinata alla tecnica del merletto?
Sono nata sull’isola di Burano, e per tradizione ho imparato a lavorare la tecnica del merletto ad ago da bambina, guardando mia mamma, la nonna e le zie che realizzavano il merletto in casa. Mia mamma è stata una merlettaia che ha frequentato la scuola del merletto di Burano, aperta nel 1872 e chiusa nel 1970. Negli anni ’90, quasi maggiorenne e con l’aiuto della mia famiglia, ho aperto una piccola bottega artigianale del merletto.

Per il tuo lavoro, che importanza ha avuto il legame con il territorio e l’isola di Burano?
Quando ho aperto la prima bottega della famiglia Vidal, che ho chiamato “Artigianato del Merletto da Martina”, ho realizzato un sogno. La denominazione si adeguava alla tradizione dei negozi di Burano, piccole attività, quasi interamente femminili, dove il nome identificava già uno stile, un modo di fare. Oggi il mio lavoro, che si concentra sulla realizzazione e vendita di biancheria per la casa, è ancora molto legato ai valori dell’artigianato e del ben fatto, e alla volontà di creare collezioni originali e di alta qualità.