Restauro e conservazione: le sfide del contemporaneo

Isabella Villafranca Soissons è una delle massime esperte di restauro di opere contemporanee a livello internazionale. Direttrice del Dipartimento di Conservazione e Restauro di Open Care, azienda italiana leader in Europa nella conservazione, gestione e valorizzazione di beni artistici, insegna presso prestigiose università ed è relatrice per importanti conferenze e convegni in Italia e all’estero. Nel 2015 ha pubblicato con Fondazione Cologni il volume “In opera”, una panoramica d’eccezione che racconta l’esperienza di quanti producono, curano, espongono, tutelano e collezionano arte contemporanea.

Quali sono gli aspetti artigianali presenti nel mestiere del restauratore?
Due sono gli aspetti artigianali presenti nel mestiere del restauratore.
Il primo relativo alla non serialità dell’intervento: ogni restauro è da considerarsi un unicum che ogni volta richiede la messa a punto di un progetto specifico. Inoltre, il progetto iniziale – a volte – necessita di ripensamenti in corso d’opera in quanto i materiali possono rispondere all’intervento in modo diverso da quanto ipotizzato inizialmente. Ciò può verificarsi anche nel caso siano state condotte analisi chimiche e fisiche propedeutiche al restauro.
Oltre all’aspetto di unicità è da tenere in considerazione l’abilità manuale e la perizia dei restauratori, oggigiorno supportate da sofisticate attrezzature e strumentazioni il più delle volte mutuate da ambiti diversi come quello chirurgico e medicale.

Sandro Barbera & Figli

La bottega Sandro Barbera & Figli ha vinto la prima edizione del concorso Artigiano del Cuore, per la categoria Vestirsi e Ornarsi.
Abbiamo conosciuto Andrea Barbera, che oggi porta avanti l’azienda insieme a suo fratello Stefano: una realtà solida e all’avanguardia, con una grande tradizione di famiglia. Tutti a Biella conoscono e amano le loro scarpe, vendute in tutto il mondo.

Complimenti per la vittoria! Come avete vissuto il concorso Artigiano del Cuore?
Grazie (è proprio il caso di dirlo) di cuore, da parte di tutta la mia famiglia! Abbiamo vissuto il concorso con tanto entusiasmo, altrettanta emozione e anche, lo ammettiamo, agitazione: è stata la realizzazione di un sogno! La nostra è stata una vittoria di squadra, merito dei nostri genitori e di tutte le persone che in questi anni ci hanno dimostrato il loro affetto, la loro fiducia e un grande apprezzamento per i nostri prodotti.

Quando è nata la vostra azienda? Cosa ha significato per te crescere in bottega?
La nostra è un’azienda familiare nata esattamente 50 anni fa, dalle competenze dei miei genitori nel settore calzaturiero e dalla loro passione per il fatto a mano italiano. Il “saper fare” che ancora oggi caratterizza e contraddistingue il Biellese era ben radicato in loro, come adesso lo è in me e in mio fratello Stefano. Seguire le loro orme è stata una naturale conseguenza dell’essere cresciuti in bottega. Per noi è sempre stata un posto magico, dove poter creare con le proprie mani, giocare insieme, conoscere nuove persone e leggere l’espressione di meraviglia negli occhi dei clienti. Devo molto ai miei genitori, in particolare a mio padre. Sono stati in grado di trasmettere a noi figli la passione e i segreti del mestiere, attraverso un vero e proprio apprendistato nell’azienda di famiglia.
Una parte fondamentale della nostra formazione è arrivata anche dal confronto con i maestri calzolai che spesso venivano a trovarci in laboratorio: attraverso lo scambio di conoscenze ci offrivano un’importante occasione di crescita.

Fabrizio Travisanutto

Fabrizio Travisanutto è il vincitore della prima edizione del concorso Artigiano del Cuore, per la categoria Arredare e Decorare.
Maestro Mosaicista dal 2003, oggi gestisce l’azienda del padre e realizza magnifiche opere per prestigiosi committenti in tutto il mondo.

Complimenti per la vittoria! Come hai vissuto il concorso Artigiano del Cuore?
L’ho vissuto con grande curiosità ed entusiasmo. È stata la prima volta in cui mi sono messo in gioco così apertamente, generalmente evito di esporre la mia attività al grande pubblico. Vorrei ringraziare tutte le centinaia di persone che hanno speso qualche minuto per testimoniare la loro simpatia nei nostri confronti.

Quando è nata la tua azienda? Cosa ti ha portato a proseguire questa tradizione?
Mio padre, Giovanni Travisanutto, ha studiato e lavorato come mosaicista a Spilimbergo fino al 1971, quando gli venne offerta la possibilità di lavorare a New York, negli Stati Uniti. Dopo un decennio molto fruttuoso, nel 1979 decise di tornare in Friuli e di aprire l’azienda: da allora non ci siamo mai fermati un solo giorno, realizzando migliaia di mosaici artistici in ogni angolo del pianeta.
Lui voleva che diventassi avvocato. Invece, dopo il liceo classico, ho scelto di continuare il suo mestiere. Perché in tutta la vita l’ho sempre visto felice, sempre contento di andare al lavoro, mai stanco né annoiato. Indubbiamente è stato ed è tutt’oggi la mia figura di riferimento.

Pariani

Abbiamo incontrato il signor Aurelio Mutinelli, Presidente della Selleria Pariani, per farci raccontare la sua storia e quella della sua azienda, storica realtà milanese che diede vita alla prima sella moderna del mondo.

Quando ha inizio la storia della Selleria Pariani?
All’inizio del Novecento Adolfo Pariani aveva un negozio di abbigliamento e articoli inglesi a Milano, a due passi dal Duomo. Lavorando con degli ottimi artigiani, decise di iniziare a confezionare selle e accessori per conto proprio, per non doverli importare dall’Inghilterra.
In quegli anni Federico Caprilli, ufficiale di Cavalleria a Pinerolo, stava mettendo a punto un nuovo sistema per montare a cavallo differente da quello inglese che si usava all’epoca, che permetteva all’animale di effettuare il movimento più naturale possibile. Il signor Pariani si propose di collaborare per costruire un modello di sella che si adattasse al nuovo sistema e il tenente Caprilli accettò.
Fu così che nacque nel 1905 il modello Pinarolo, dalla cittadina piemontese sede della famosa Scuola di Cavalleria, ed ebbe inizio la storia della Selleria Pariani.

Questione di naso

Firenze, città delle arti e del saper fare. Firenze città del profumo. Una storia che ha origine nel periodo aureo del Rinascimento e che ancora oggi grazie alla presenza di botteghe e nasi blasonati è ricca di novità riconosciute e apprezzate in tutto il mondo.
Una dedizione quella di Firenze alla profumeria artistica che in anni recenti ha visto crescere una importante fiera di settore dedicata, ‘Fragranze’, portata avanti con successo di partecipazione e buyer da Pitti Immagine. Nel percorso di oltre cinquecento anni ne è stata fatta di strada. Dalla comparsa del “Nuovo Ricettario Fiorentino” messo a punto dal Collegio dell’Arte dei Medici nel 1498 per fissare le regole a cui tutti gli speziali dovevano attenersi per la composizione dei loro composti,  alla cura delle scienze botaniche che tanto appassionò la famiglia dei Medici.

Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella deve la sua creazione ai frati domenicani che si stabilirono a Firenze nel XIII secolo. Oggi se ne ammira tutta la storia negli arredi, negli strumenti e nelle decorazioni. Se la sua fama si lega al tipico liquore rosso Alchermes ottenuto dalla cocciniglia essiccata, oppure alla Polvere per imbiancare le carni (tipica degli anni 20 del ‘900) negli imponenti locali di via della Scala si apprezzano gli intensi profumi e i pout-pourri, insieme ad aromi insoliti e pungenti. Un successo dovuto anche al piglio imprenditoriale del patron Eugenio Alphandery che ha fortemente creduto nel valore di una produzione tutta made in Florence. «Le erbe officinali, la lavanda e le rose arrivano dal nostro giardino di Villa La Petraia», spiega, «come le candele dalla cereria interna». In tempi recenti  per celebrare importanti anniversari si sono create profumazioni come l’Acqua di Colonia Cinquanta per festeggiare il 50° anniversario di gemellaggio tra Firenze e Kyoto. Un bouquet floreale dove le note di testa di gardenia, fiori d’arancio e fiori di tiaré, s’intrecciano con legni dolci e the verde nella ricchezza del cashmere. Una nota muschiata ed ambrata introduce il fondo di legni preziosi. Oppure Lana, Acqua di Colonia ad edizione limitata, morbida, calda e dolce nell’aria come la sensazione che si prova ad affondare la mano nella lana. «In occasione della mostra Amore e Psiche nel 2012 a Palazzo Marino a Milano abbiamo realizzato la fragranza per l’ambiente per rievocare l’odore fresco del giardino, quello legnoso del sottobosco e quello freddo del marmo, mentre lo scorso luglio al Palazzo delle Esposizioni di Roma per il progetto “Caravaggio Experience” è andata in scena la fragranza ‘Maledetto’».

C’era una volta la carta

Un grazie alla cassata siciliana. È infatti anche merito dello squisito dessert insulare se la cartiera Amatruda è riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni. Negli anni più difficili della prima metà del ’900, allorché l’industrializzazione sistematica e lo sviluppo di più moderne arterie commerciali penalizzavano pesantemente la sempre più isolata Amalfi, Ferdinando Amatruda e suo figlio Luigino (quello stesso Don Luigi che in età matura sarebbe divenuto il beniamino degli editori più raffinati) riuscivano a mantenere in vita l’attività di famiglia per merito della briglia, carta di colore bianco in uso presso le pasticcerie meridionali nonché negli studi legali. Anche oggi, in piena epoca di posta elettronica ed e-book, rimanere a galla non è facile; per fortuna ci sono ancora l’editoria di lusso e le partecipazioni, che in qualche modo hanno rimpiazzato i dolci della Trinacria e le cartelle degli avvocati.
Fedele all’insegnamento di Don Luigi e alla storia della famiglia Amatruda, legata alla produzione di carta fin dal XV secolo, la figlia Antonietta perpetua il mestiere di famiglia con rigore filologico, coadiuvata in questo dalla sorella Teresa, dal cognato Lucio e dal nipote Giuseppe Amendola, oltreché da un pugno di maestranze legate all’azienda da decenni. In effetti, la produzione della carta a mano nell’antico opificio a ponte sul fiume Canneto è rimasta sostanzialmente invariata rispetto ai procedimenti in uso nel Medioevo per ottenere la «bambagina», come si era soliti designare un tempo la carta di cenci da queste parti. Ora come allora ci si avvale dell’acqua che dai rilievi dell’entroterra amalfitano scende attraverso la Valle dei mulini per dare luogo a impasti di cotone o cellulosa il più possibile liberi da impurità. A testimonianza dell’attività plurisecolare dell’opificio sono le antiche torri, ovvero vasche a forma d’imbuto munite di un tappo; opportunamente sollevato mediante catena, questo convogliava l’acqua verso la ruota e l’albero motore che azionavano i martelli chiodati per la riduzione in poltiglia degli stracci accumulati in apposite vasche note come «pile».

L’operaio dell’anima

Il percorso artistico di Tarshito da anni rappresenta l’anello di congiunzione tra la nostra cultura artistica e artigianale e quella orientale. La sua pratica progettuale, carica di riferimenti mistici e spirituali, trova nella cultura del fare indiana la sua più intensa rappresentazione e formalizzazione.

Tutti conoscono la sua coerenza e il suo amore per i materiali e la cultura mediterranea; qual è la sua posizione di progettista nei confronti del mondo del design e dell’arte applicata?
Non si tratta di posizioni, magari contrapposte, ma entrambi questi elementi che si fondono nel mio approccio, nella mia sensibilità dell’operare. Io, in effetti, mi sento «una congiunzione» fra le varie culture. Sono nato in una zona occidentale del mondo ma ho avuto l’opportunità, anzi, sto avendo l’opportunità di frequentare molti altri luoghi del pianeta Terra e in particolar modo l’India, un luogo dalle profonde radici culturali. Sto studiando un po’ le Sacre scritture, i Veda di 4mila anni fa donati proprio all’India. Questo mio muovermi tra due posti del mondo apparentemente così diversi, apparentemente così antitetici, frequentando la cultura artistica e artigianale dei due luoghi, l’India e la laboriosa Puglia, nel sud dell’Italia, mi sta facendo vedere in maniera abbastanza chiara e forte l’unità fra questi opposti; sto piano piano sentendo «l’Uno», fra l’East e il West. Più viaggi compio, più gente conosco della Puglia (con cui mi relaziono per realizzare ceramiche dorate, grande tradizione dell’Italia), in particolare del sud della Puglia, o più conosco persone tribali dell’India, che usano dipingere le proprie case, le proprie capanne di terra cruda, che dipingono per ringraziare il divino, affinché il raccolto possa andare bene, affinché un matrimonio possa andare bene… e più riscopro piccole ritualità un po’ dimenticate. Le riscopro soprattutto in questo luogo del mondo da cui vi sto parlando, l’Italia, di cui indago i riti di fondazione. Da architetto mi capita spesso di parlare con qualche anziano muratore di piccoli danari donati alla madre terra o di altri doni da fare, per cui attraverso le ritualità, attraverso il «vecchio sapere», il saper fare, delle mani, a volte italiane, a volte indiane, a volte albanesi con cui ho la fortuna e la gioia di poter collaborare. Ecco, attraverso questa magica area che è il simbolismo, che è la ritualità che va al di là della cultura specifica orientale o occidentale, ecco, attraverso questa area io, man mano nel tempo, ho cominciato a vedere unite queste due parti fino a farne una sola, per cui ciò che io sento non è più una cultura mediterranea o una cultura orientale: è semplicemente cultura. E se prima ho parlato di radici, di ritualità, di simboli, quel che voglio significare è proprio la visualizzazione della radice, di una forma che sto realizzando o che sta realizzando un artista o un artigiano indiano piuttosto che pugliese. Se, attraverso questa forma, il suo simbolo mi porta a un concetto, c’è una forza altrettanto grande che invece mi riporta verso il Trascendente. Per cui, attraverso il simbolo, ciò che è più importante è proprio questa grande profondità che mi permette di entrare nella concettualità. Questo agire mi conduce inevitabilmente all’essenza del progetto, a questa forma di consapevolezza; questo tentativo di avvicinarsi all’essenza è un mezzo per onorare, per offrire lo stesso progetto al Trascendente. Per cui la mia posizione di progettista nei confronti della creatività è un cammino, è un viaggio.

Un nuovo umanesimo

Chi sa disegnare possiede un grande tesoro, diceva il sommo Michelangelo. E basterebbe ammirare il soffitto della Cappella Sistina per apprezzare appieno la portata di questa considerazione apparentemente elementare. Ma la maestria del leggendario artista italiano è andata ben oltre il disegno e la pittura: Michelangelo è stato scultore, architetto, poeta, e ha perfino studiato la rimozione e il trasporto dei pesanti blocchi di marmo necessari alla sua attività, dalla cava al suo laboratorio. Michelangelo incarna quindi la perfetta sintesi di fantasia e creatività, unite alle rigorose esigenze dell’arte del fare. Una sintesi che dopo la Rivoluzione industriale è divenuta sempre più rara, e che è stata via via sostituita da una progressiva specializzazione e frammentazione del lavoro. Questa perdita dell’ideale unità tra arte e mestiere, saper creare e saper fare ha in molti casi nuociuto all’intelligenza della mano: l’avvento della riproduzione in serie, la perdita progressiva di valore associato ai mestieri d’arte ha posto fortemente in crisi diverse attività artigianali d’eccellenza, profilandone in alcuni casi l’estinzione. Il ruolo del maestro artigiano, un tempo molto apprezzato, nel corso degli ultimi 50 anni è stato infatti minacciato dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale e dai progressi tecnologici. La svalorizzazione di quello che produciamo con le mani ha creato un divario tra chi «pensa» alle cose, ovvero le progetta, e chi le fa.

Questa difficile e delicata situazione ha attirato l’attenzione del businessman sudafricano Johann Rupert e dell’imprenditore, scrittore e mecenate italiano Franco Cologni. Insieme, i due (legati da un’amicizia di lunga data) hanno deciso di ridare valore alla creatività e all’alto artigianato, creando la Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship: un’istituzione privata non-profit basata a Ginevra, che mira a colmare questo divario, ad avvicinare nuovi talenti alle professioni del fare, a stabilire il vero valore della competenza artigiana e a ispirare la nascita di nuove creazioni che riflettano la domanda e il gusto contemporanei.