Un grazie alla cassata siciliana. È infatti anche merito dello squisito dessert insulare se la cartiera Amatruda è riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni. Negli anni più difficili della prima metà del ’900, allorché l’industrializzazione sistematica e lo sviluppo di più moderne arterie commerciali penalizzavano pesantemente la sempre più isolata Amalfi, Ferdinando Amatruda e suo figlio Luigino (quello stesso Don Luigi che in età matura sarebbe divenuto il beniamino degli editori più raffinati) riuscivano a mantenere in vita l’attività di famiglia per merito della briglia, carta di colore bianco in uso presso le pasticcerie meridionali nonché negli studi legali. Anche oggi, in piena epoca di posta elettronica ed e-book, rimanere a galla non è facile; per fortuna ci sono ancora l’editoria di lusso e le partecipazioni, che in qualche modo hanno rimpiazzato i dolci della Trinacria e le cartelle degli avvocati.
Fedele all’insegnamento di Don Luigi e alla storia della famiglia Amatruda, legata alla produzione di carta fin dal XV secolo, la figlia Antonietta perpetua il mestiere di famiglia con rigore filologico, coadiuvata in questo dalla sorella Teresa, dal cognato Lucio e dal nipote Giuseppe Amendola, oltreché da un pugno di maestranze legate all’azienda da decenni. In effetti, la produzione della carta a mano nell’antico opificio a ponte sul fiume Canneto è rimasta sostanzialmente invariata rispetto ai procedimenti in uso nel Medioevo per ottenere la «bambagina», come si era soliti designare un tempo la carta di cenci da queste parti. Ora come allora ci si avvale dell’acqua che dai rilievi dell’entroterra amalfitano scende attraverso la Valle dei mulini per dare luogo a impasti di cotone o cellulosa il più possibile liberi da impurità. A testimonianza dell’attività plurisecolare dell’opificio sono le antiche torri, ovvero vasche a forma d’imbuto munite di un tappo; opportunamente sollevato mediante catena, questo convogliava l’acqua verso la ruota e l’albero motore che azionavano i martelli chiodati per la riduzione in poltiglia degli stracci accumulati in apposite vasche note come «pile».
Autore: fondazione
L’operaio dell’anima
Il percorso artistico di Tarshito da anni rappresenta l’anello di congiunzione tra la nostra cultura artistica e artigianale e quella orientale. La sua pratica progettuale, carica di riferimenti mistici e spirituali, trova nella cultura del fare indiana la sua più intensa rappresentazione e formalizzazione.
Tutti conoscono la sua coerenza e il suo amore per i materiali e la cultura mediterranea; qual è la sua posizione di progettista nei confronti del mondo del design e dell’arte applicata?
Non si tratta di posizioni, magari contrapposte, ma entrambi questi elementi che si fondono nel mio approccio, nella mia sensibilità dell’operare. Io, in effetti, mi sento «una congiunzione» fra le varie culture. Sono nato in una zona occidentale del mondo ma ho avuto l’opportunità, anzi, sto avendo l’opportunità di frequentare molti altri luoghi del pianeta Terra e in particolar modo l’India, un luogo dalle profonde radici culturali. Sto studiando un po’ le Sacre scritture, i Veda di 4mila anni fa donati proprio all’India. Questo mio muovermi tra due posti del mondo apparentemente così diversi, apparentemente così antitetici, frequentando la cultura artistica e artigianale dei due luoghi, l’India e la laboriosa Puglia, nel sud dell’Italia, mi sta facendo vedere in maniera abbastanza chiara e forte l’unità fra questi opposti; sto piano piano sentendo «l’Uno», fra l’East e il West. Più viaggi compio, più gente conosco della Puglia (con cui mi relaziono per realizzare ceramiche dorate, grande tradizione dell’Italia), in particolare del sud della Puglia, o più conosco persone tribali dell’India, che usano dipingere le proprie case, le proprie capanne di terra cruda, che dipingono per ringraziare il divino, affinché il raccolto possa andare bene, affinché un matrimonio possa andare bene… e più riscopro piccole ritualità un po’ dimenticate. Le riscopro soprattutto in questo luogo del mondo da cui vi sto parlando, l’Italia, di cui indago i riti di fondazione. Da architetto mi capita spesso di parlare con qualche anziano muratore di piccoli danari donati alla madre terra o di altri doni da fare, per cui attraverso le ritualità, attraverso il «vecchio sapere», il saper fare, delle mani, a volte italiane, a volte indiane, a volte albanesi con cui ho la fortuna e la gioia di poter collaborare. Ecco, attraverso questa magica area che è il simbolismo, che è la ritualità che va al di là della cultura specifica orientale o occidentale, ecco, attraverso questa area io, man mano nel tempo, ho cominciato a vedere unite queste due parti fino a farne una sola, per cui ciò che io sento non è più una cultura mediterranea o una cultura orientale: è semplicemente cultura. E se prima ho parlato di radici, di ritualità, di simboli, quel che voglio significare è proprio la visualizzazione della radice, di una forma che sto realizzando o che sta realizzando un artista o un artigiano indiano piuttosto che pugliese. Se, attraverso questa forma, il suo simbolo mi porta a un concetto, c’è una forza altrettanto grande che invece mi riporta verso il Trascendente. Per cui, attraverso il simbolo, ciò che è più importante è proprio questa grande profondità che mi permette di entrare nella concettualità. Questo agire mi conduce inevitabilmente all’essenza del progetto, a questa forma di consapevolezza; questo tentativo di avvicinarsi all’essenza è un mezzo per onorare, per offrire lo stesso progetto al Trascendente. Per cui la mia posizione di progettista nei confronti della creatività è un cammino, è un viaggio.
Un nuovo umanesimo
Chi sa disegnare possiede un grande tesoro, diceva il sommo Michelangelo. E basterebbe ammirare il soffitto della Cappella Sistina per apprezzare appieno la portata di questa considerazione apparentemente elementare. Ma la maestria del leggendario artista italiano è andata ben oltre il disegno e la pittura: Michelangelo è stato scultore, architetto, poeta, e ha perfino studiato la rimozione e il trasporto dei pesanti blocchi di marmo necessari alla sua attività, dalla cava al suo laboratorio. Michelangelo incarna quindi la perfetta sintesi di fantasia e creatività, unite alle rigorose esigenze dell’arte del fare. Una sintesi che dopo la Rivoluzione industriale è divenuta sempre più rara, e che è stata via via sostituita da una progressiva specializzazione e frammentazione del lavoro. Questa perdita dell’ideale unità tra arte e mestiere, saper creare e saper fare ha in molti casi nuociuto all’intelligenza della mano: l’avvento della riproduzione in serie, la perdita progressiva di valore associato ai mestieri d’arte ha posto fortemente in crisi diverse attività artigianali d’eccellenza, profilandone in alcuni casi l’estinzione. Il ruolo del maestro artigiano, un tempo molto apprezzato, nel corso degli ultimi 50 anni è stato infatti minacciato dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale e dai progressi tecnologici. La svalorizzazione di quello che produciamo con le mani ha creato un divario tra chi «pensa» alle cose, ovvero le progetta, e chi le fa.
Questa difficile e delicata situazione ha attirato l’attenzione del businessman sudafricano Johann Rupert e dell’imprenditore, scrittore e mecenate italiano Franco Cologni. Insieme, i due (legati da un’amicizia di lunga data) hanno deciso di ridare valore alla creatività e all’alto artigianato, creando la Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship: un’istituzione privata non-profit basata a Ginevra, che mira a colmare questo divario, ad avvicinare nuovi talenti alle professioni del fare, a stabilire il vero valore della competenza artigiana e a ispirare la nascita di nuove creazioni che riflettano la domanda e il gusto contemporanei.