Lo spazio danza con me

Ancora oggi il design è, pur sempre, una giovane disciplina! Lo dimostra il fatto che non ha mai individuato un’area autonoma di ricerca rispetto alla produzione e al consumo e, come giovane disciplina, negli anni ha spesso parassitato aree di ricerca ai confini del suo ambito disciplinare: l’industria bellica nel dopoguerra, l’arte programmata negli anni Sessanta, l’architettura negli anni Cinquanta e Sessanta, l’arredamento dagli anni Trenta a oggi e più recentemente l’artigianato e l’arte applicata. Tra i tanti autori che hanno saputo trasferire particolari esperienze da una disciplina a un’altra, ho sempre pensato di dover indicare Fabio Novembre. Novembre ha saputo portare alcuni contributi al mondo del design trasferendoli dal mondo dell’«arredamento scenografico» di cui è stato più volte protagonista all’inizio della sua attività. Ricordo lo show-room Bisazza a Berlino e Barcellona. L’Hotel Una Vittoria di Firenze, il negozio Tardini a New York, il Café Atlantique a Milano, e tante installazioni che Novembre sviluppa nello spazio con lo stesso spirito e attitudine di un grande scenografo.

Talento artigiano in scena

L’Italia dell’alto artigianato, del savoir faire manuale d’eccezione diffuso da nord a sud in tutto il territorio, isole comprese, trova per la prima volta una ribalta straordinaria grazie all’importante progetto promosso dal Gruppo Editoriale, con Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte e Osservatorio dei Mestieri d’Arte di Firenze.
Nasce un’iniziativa ambiziosa e inedita, che si propone di dare spazio e visibilità alle moltissime realtà artigiane di assoluta eccellenza che connotano in maniera unica il nostro Paese, suscitando l’ammirazione del mondo e divenendo meta del turismo più colto e responsabile. In che modo? Attraverso un portale e una guida cartacea, che condividono lo stesso titolo “Italia su misura”, quanto mai significativo ed evocativo.

Quel vezzo che fa chic

«Da che mi ricordo, ho sempre portato un ventaglio…» dice Raphaëlle de Panafieu, trentenne parigina, ricordando come il padre (che viaggiava spesso in Asia) quando era piccola portasse ogni volta a lei e alle sue due sorelle proprio un ventaglio. Un giorno ne volle acquistare uno con i suoi soldi: ma i ventagli asiatici, così come quelli spagnoli che trovava sui lungomare delle spiagge, non erano affatto di suo gusto. Certo, svolgevano sempre la loro funzione, ma erano troppo “asiatici” o troppo “spagnoli”: non corrispondevano insomma alla moda. Lei voleva qualcosa di meglio. Ed è così che è iniziata l’avventura. 2009: Raphaëlle lavora per Ventilo, marca di prêt-à-porter femminile dell’alto di gamma, in qualità di responsabile della ricerca presso i department stores asiatici, dell’America del Nord e del Medio Oriente. Eloïse Gilles, dopo essere passata per Louis Vuitton, lavora sulle marche di lusso e sulla loro identità. Hanno appena trent’anni. E insieme decidono di resuscitare il ventaglio. 

Un’eredità di cultura e bellezza

In Giappone la tradizione è importante quanto il progresso e l’uno non può esistere senza l’altro. Il Giappone fu il primo Paese al mondo a costruire un intero sistema ferroviario dedicato agli Shinkansen, i famosi treni ad alta velocità che saettano senza sosta tra futuristiche e affollate città, dove centinaia di grandi magazzini dedicano, ancora oggi, interi piani ai kimono e ai prodotti dell’artigianato nipponico. Nella culla della tecnologia, il teatro Kabuki e la lotta Sumo sono ancora estremamente popolari. L’origine dei Manga è più antica e nobile di quanto gli appassionati lettori occidentali possano immaginare e la storia del Giappone è affidata tanto alla tecnologia quanto agli Ukiyo-e, le stampe artistiche realizzate con la tecnica delle matrici di legno.

In Giappone ciò che è vecchio e antico rappresenta saggezza e conoscenza, non solo tradizione. In anticipo sul resto del mondo, nel 1950 il governo giapponese promulgò la Legge per la protezione delle proprietà culturali, nella quale veniva riconosciuto il valore intangibile della cultura vivente, assimilandola a monumenti, siti e manufatti. Fu così che il Giappone istituì i Conservatori di proprietà culturali intangibili, familiarmente noti come Ningen Kokuho, Tesori nazionali viventi. Si tratta di maestri in arti e tecniche, in giapponese Waza, che hanno raggiunto un supremo livello di perizia sia individualmente sia collettivamente. I Tesori nazionali viventi sono designati e tutelati dal ministero dell’Educazione, cultura, sport, scienza e tecnologia attraverso l’agenzia per gli Affari culturali. Inoltre, il governo sostiene ciascun «Conservatore» con una sovvenzione annua di due milioni di yen. La legge prevede fino a 116 Tesori nazionali viventi nelle arti recitative e musicali e nei mestieri d’arte e attualmente gli insigniti sono 114. La categoria delle arti recitative e musicali include: Nohgaku (dramma musicale classico), Gagaku (antiche musiche e danze di corte), Bunraku (teatro delle marionette), Kabuki (opere di danza e musica interpretate esclusivamente da uomini), Kumi Odori (danza narrativa), Engei (forme recitative popolari), Musica e danza. Quella dei mestieri d’arte: Ceramiche, Tessili, Urushi (lacca naturale giapponese), Lavorazione del metallo, del Legno, della Carta, Bambole.

Oro bianco

Kao-ling e pai-tun-tzu˘ sono gli elementi che costituiscono, secondo i cinesi, lo «scheletro» e la «carne» della porcellana. Oggi sono comunemente conosciuti come caolino e feldspato, che assieme al quarzo vengono assemblati in un’unione alchemica all’origine della purezza e durezza del cosiddetto «oro bianco», noto in Cina sin dall’epoca T’ang (618-907). Dopo innumerevoli tentativi, nel 1708-1709 in Germania viene compiuto il prodigio a opera di E. W. Von Tschirnhaus, fisico e chimico, e dell’alchimista J. F. Böttger: insieme riescono a riprodurre una porcellana dalle caratteristiche pressoché identiche a quella cinese. Per interessamento di Augusto II detto il Forte, re di Polonia ed elettore di Sassonia, grande collezionista di porcellane e preziosi, nel 1710 viene fondata a Meissen la prima manifattura europea di porcellana dura. Quella di Augusto II non è solo una passione ma una vera ossessione, una «maladie de porcelaine», come lui stesso diceva. Geloso della scoperta, il re non permette che la ricetta venga copiata e fa trasferire la produzione delle porcellane di Meissen nel castello di Albrechtsburg, fortezza inespugnabile vicino a una miniera di caolino. Ben presto tuttavia il segreto viene svelato e fa il giro d’Europa. Si assiste così al sorgere di manifatture storiche di porcellana in centri come Limoges e Sèvres in Francia e Doccia in Italia, complice la necessaria vicinanza alle cave di caolino, roccia sedimentaria che garantisce la purezza al materiale finito. Nella manifattura di Meissen la produzione plastica è legata al nome degli scultori Kirchner prima, e Kändler poi, ed è segnata dalla realizzazione di centinaia di animali in porcellana a grandezza naturale per il cosiddetto Palazzo giapponese di Dresda. Sotto la guida di Kändler, diventato capo modellatore nel 1733, vengono ideati nuovi motivi decorativi, nuove forme per i servizi di vasellame e piccole sculture con figure orientali, tratte dalla commedia dell’arte o dalla vita quotidiana.

Lorenzo Borghi

La storia di Lorenzo Borghi artigiano ha inizio quando nel 1952, all’età di dodici anni, comincia a lavorare nella bottega di cappelli per signora di Passerini Lionello. Quando questi viene a mancare, Borghi ne rileva l’attività, trasferendosi in via dei Piatti, in pieno centro a Milano. In questa sede, dove ancora lavora, egli si dedica da più di cinquant’anni ai cappelli, fatti a regola d’arte secondo la tradizione; è fra gli ultimi artigiani rimasti a realizzare un prodotto di tale qualità tutto fatto a mano. Nel corso della sua attività ha collaborato con i grandi stilisti, quali Krizia, Ferré, Moschino, e con sartorie teatrali. Ha realizzato e realizza cappelli per persone famose (tra cui la regina Elisabetta II) e non, ma sempre con la stessa passione e amore che solo un vero artigiano sa mettere nelle proprie creazioni.

Giacomo Moor

Qual è la tua storia? Come è iniziata la tua attività?
La mia passione per il legno è maturata durante gli anni universitari grazie all’assidua frequentazione di una bottega artigiana; la passione per il design invece nelle aule del Politecnico, anche grazie a uno straordinario professore, Beppe Finessi, che ha segnato il mio percorso e influenzato le mie scelte.
È nata così l’idea di disegnare, ma soprattutto di realizzare in prima persona degli oggetti -pezzi unici e piccole serie- nei quali la componente manuale potesse diventare il valore aggiunto del progetto. Il confronto, quasi ossessivo, con realtà artigianali già strutturate e con una solida esperienza alle spalle, mi ha dato tantissimo, convincendomi che sarebbe stata una strada percorribile.

Che tipo di formazione bisogna avere per dedicarsi a questo mestiere?
Direi una doppia formazione. Da un lato una cultura del progetto quindi una formazione legata al mondo del design, dall’altro le competenze tecniche per tramutare un’intuizione in oggetto quindi abilità manuale.

Comunicare il savoir-faire

Non è facile stare dietro a Sam Baron, che lavora tra Italia, Francia, Portogallo, ed è sempre in viaggio tra l’Europa e il resto del mondo, dove porta le sue mostre e partecipa ai più noti appuntamenti del mondo del design. Il designer francese, non ancora quarantenne, è noto nel mondo del progetto per il suo stare un po’ borderline tra la fabbrica e la bottega, tanto che negli ultimi dieci anni (la sua attività ha inizio nel 1997 prima ancora di terminare gli studi) ai pezzi realizzati per design brand come Zanotta, Ligne Roset, Casamania, si sono aggiunti progetti speciali fatti in collaborazione con importanti manifatture, come Sèvres e Limoges. A queste attività si sommano quella di responsabile della sezione design di Fabrica, la scuola-centro ricerche del gruppo Benetton  e i progetti personali portati avanti sotto la denominazione di Baron Edition.

Sam, oltre che come designer è attivo come art director e i suoi progetti sconfinano in installazioni e numerose mostre (come l’ultima «Belvedere», ospitata a Villa Necchi durante l’ultimo Salone del Mobile di Milano) dai contenuti culturali. Il design e la sua «messa in scena» sono dunque un mezzo valido per promuovere la difesa e il valore del savoir-faire?
Il design è un processo, una pratica, che ti permette di unire diverse cose: creatività, tecnica, comunicazione… quindi come art director mi è possibile trasmettere messaggi attraverso una collezione di oggetti focalizzati su particolari soggetti o temi, a seconda del caso. Credo che la possibilità di mettere dei giovani talenti (come accade nei lavori con il team di Fabrica, ndr) a elaborare delle nuove visioni sia una grande opportunità per stabilire una conversazione, quindi un contatto con il pubblico su certi temi come la difesa del patrimonio artigianale.

Fabscarte

Dall’esperienza ventennale di Emilio Brazzolotto nasce Fabscarte, realtà milanese unica e attiva nella produzione di handmade wallpaper, carte da parati fatte e dipinte a mano. Siamo andati a trovarli nel loro splendido laboratorio.

Che tipo di formazione bisogna avere per dedicarsi a questo mestiere?
Sicuramente la scuola d’arti e mestieri, ma fondamentale è incontrare un maestro di decorazione d’interni con cui crescere e un continuo studio che permette la conoscenza e il miglioramento della personalità.

L’emozionante ricerca della regola del talento

Il talento è al tempo stesso la misura di un peso, che inclina la bilancia spostando più in basso il piatto sul quale poggia, e, per metafora, qualsiasi cosa (il denaro innanzitutto) definisca la supremazia di una parte sull’altra. Una misura, dunque, che diventa un valore non appena si lasciano perdere le scale numerarie per inseguirne altre di diversa natura. Il talento e il valore sono così trasmigrati dal solido terreno della quantità a quell’altro impalpabile dell’etica o dell’estetica, coinvolgendo le pulsioni del desiderio, la forza dell’ambizione. Eppure, quantitativo o qualitativo, sul talento si fondano graduatorie anche meritocratiche, capaci di attribuire valore all’invenzione, di segnalare l’estro di quell’esercizio del fare che è il fondamento di ogni produzione dell’artigiano, che si affida alle proprie mani, e poi alle macchine, purché a gestirle sia lui, con l’ingegno e le emozioni.

All’artigianato appartengono tutti i mestieri cancellati dalla macchina industriale, capace di sostituire il lavoro dell’uomo con una produzione seriale sempre eguale al prototipo: il moderno si è imposto celebrando il trionfo della copia. Se si disegnasse tra gli assi cartesiani il procedere della modernità, su quello verticale misurando la competenza come sull’altro il consenso, la curva che ne uscirebbe precipiterebbe verso il basso per correre diritta, parallela all’ascissa. Quel che conta nella modernità non è la qualità, oggetto di un’opinione fondata sul metodo comparativo, ma la quantità, niente affatto opinabile perché misurata secondo una scala numeraria. Il numero (di copie, di voti, di spettatori) è il nuovo dio del moderno, che detta legge, distribuisce meriti, decreta ascese e tracolli senza discussioni. Così la decadenza dell’artigianato coincide con il moderno che l’ha vinta, e al contrario il suo riapparire conferma che la modernizzazione è finita e un tempo nuovo è cominciato davvero, successivo al moderno, che del moderno deve imparare a fare a meno, senza comunque tornare indietro, perché agli uomini non è consentito. Tornare all’artigianato dopo la sua cancellazione nella modernità non può essere la restaurazione di un mondo scomparso, ha un senso ben diverso e più ricco, nel segno opposto del rinnovamento della tradizione nel tempo della discontinuità.

Si ricomincia dalle mani e si vuole sfuggire al calco, immettendo dove è possibile e merita un segno personale, che restituisca il piacere della sorpresa, la gioia della meraviglia. Nell’artigianato si ripropone il ruolo dell’abilità e della perizia, la forza dell’esperienza; c’è forte il primato dell’individuo, lo stupore dell’aura, il mistero del bello, la felicità della competizione, il furore del confronto; c’è, insomma, l’addio al moderno, ai suoi poco umani valori, e l’inizio di una nuova straordinaria avventura verso una meta sconosciuta e per questo non meno inquietante. Non saper far niente non è più l’aristocratica insegna dell’intellettuale moderno, ma il marchio di una sudditanza patita, di una servitù che dura, di una libertà non riconquistata. Dopo la modernità, dunque, resta questo tormento di Sisifo, che è, emozionante e irrinunciabile, la ricerca della «regola del talento».

Tratto da La regola del talento. Mestieri d’arte e Scuole italiane di eccellenza, Marsilio Editori, marzo 2014

Photo credit: Dario Garofalo