Interviste

La tradizione del Presepe Napoletano per Marcello Aversa

Nel meraviglioso racconto del Maestro sorrentino emerge tutta la sua infinita passione e dedizione per un arte antica che si nutre di valori tradizionali, di autenticità, di impegno e di grande gioia, tanto per l’artigiano quanto per chi può godere delle sue creazioni.

Qual è la sua storia e il suo percorso? Come nasce la passione per il presepe napoletano?
Credo di aver mosso i primi passi nella fornace di famiglia, in un piccolo opificio nel casale di Maiano, nel cuore della Penisola Sorrentina. Qui si producono laterizi per forni a legna fin dal Quattrocento. Già da piccolo ero attratto da quella massa morbida, che a seconda della forma usata diventava ora un mattone, ora un quarto di luna destinato alla pavimentazione di un forno.
Quando avevo diciotto anni mio padre morì e, forse per la prima volta, mi trovai di fronte ad un bivio importante: continuare a studiare o seguire le sue orme. Onestamente la scelta non fu difficile, mi accontentai del mio diploma di ragioniere e iniziai a lavorare nella fornace. Intanto un’altra passione mi rapiva sempre più, quella per il presepe napoletano. In fondo, in un luogo così pregno di tradizioni, non era difficile che un ragazzo partecipasse in famiglia alla costruzione di quel plastico che avrebbe accolto il Bambino la notte del 24 dicembre. Così iniziai la gavetta, aiutando mio padre e mia zia che allestivano il presepe con sughero, carta stagnola, pietrine, muschi e tutto quello che poteva avvicinare quel paesaggio così precario alla realtà.
Ad un certo punto, con quell’orgoglio che contraddistingue la giovinezza, mi misi in proprio ed iniziai a realizzare piccoli presepi con tufi e pezzetti di mattoni recuperati dalla fornace. Col tempo, gli spazi di casa si rivelarono un limite per la mia fantasia, così iniziai a sfruttare alcuni locali adiacenti la cappella del casale dedicata a San Rocco. Anch’essa ben presto non riuscì a contenere più montagne, colline, fiumi e villaggi, così iniziai a peregrinare per le chiese della Penisola Sorrentina.
Quando sei giovane, sei portato a pensare che la grandezza di ciò che fai sia direttamente proporzionale alla gratificazione che ne verrà. Poi, col passare degli anni, ti accorgi che non è tanto la grandezza, quanto quello che riesci a comunicare che fa la differenza. Fu così che negli anni novanta, con la stessa creta di mattoni, cominciai a modellare piccoli presepi, accorgendomi con stupore che tutto quello che realizzavo in grandi spazi, riuscivo a contenerlo nel palmo di una mano. In quei piccoli microcosmi immortalavo tutto quello che mi circondava: i casolari sorrentini, i ruderi romani della Villa Pollio Felice adagiati sugli scogli a picco sul mare, la straordinaria vegetazione della mia terra, gli antichi costumi della mia gente.
Partecipando a diverse mostre collettive, col passare degli anni mi resi conto che da parte del pubblico cresceva un discreto consenso nei confronti di quelle terrecotte. Mi trovai così di fronte ad un altro bivio: continuare la tradizione di famiglia o iniziare un nuovo cammino. Tra lo stupore scettico di parenti ed amici scelsi la strada più difficile, lasciai la fornace e iniziai a rincorrere la mia passione. Dalle forme lineari dei mattoni passai a quelle più articolate dei presepi.
I primi tempi si mostrarono molto difficili, soprattutto a livello economico, così iniziai a modellare figure singole da poter vendere nella strada più famosa al modo per i presepi: San Gregorio Armeno a Napoli. Ora lo ricordo e mi viene spontaneo un sorriso, ma quante volte quelle Madonne, santi Giuseppe, zampognari, angeli e pastori hanno viaggiato con me, sul treno che collega Sorrento a Napoli, sia all’andata che al ritorno.
La svolta ci fu nel 2001, quando riuscii ad aprire una bottega nel centro storico di Sorrento, con grandi sacrifici ma aiutato dal mio fratello maggiore. Da allora, oltre ai presepi ho iniziato modellare anche altri soggetti legati alle tradizioni della mia terra, come le processioni degli incappucciati della Settimana Santa, così care a chi vive questi luoghi, scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, Alberi della Vita, croci sulle quali, con diverse scene, racconto la storia della Salvezza.

Oggi come si mantiene viva una tradizione importante come quella del presepe napoletano?
Una delle cose più difficili per la società contemporanea è mantenere e tramandare non solo le tradizioni ma tutto quello che riguarda l’autenticità del nostro Paese. Il mondo corre troppo veloce e noi con lui: sarà per questo che non riusciamo più a vedere l’essenziale, quello che, come diceva Antoine de Saint-Exupéry, non si vede bene che col cuore.
Oggi nuovi termini hanno arricchito – o indebolito, dipende dai punti di vista – il nostro linguaggio, lasciando ai margini quelli che per secoli sono stati veri e propri insegnamenti e modelli anche per altri popoli: arte, cultura, tradizioni, solidarietà, passione. È proprio la passione di tante donne e uomini che può ridurre sensibilmente quel divario che si è venuto a creare tra la vecchia e la nuova generazione, sempre più lontana dalla nostra storia, sempre più vicina a storie che non ci appartengono. Questo vale anche per il presepe napoletano.

Qual è l’opera più importante, o quella più complessa realizzata finora?
Sono legato a tante opere, forse perché nel realizzarle il mio primo obiettivo è stato quello di soddisfare soprattutto me stesso. Tuttavia, c’è un’opera che, se mi è concesso il termine, amo di più. È un Albero della Vita, che è stato collocato nel Duomo di Mirandola dopo i lavori post terremoto: una croce alta due metri e mezzo, sulla quale è raccontata la storia della Salvezza attraverso le scene più salienti. Prima della definitiva sistemazione, Vita Semper Vincit – questo il titolo dell’opera – è stata esposta a Sorrento nella Cattedrale, a Napoli nella Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi e a Firenze nella Basilica di Santo Spirito.

Da dove viene l’ispirazione per le sue opere?
Non lavoro mai su un progetto a tavolino. L’ispirazione è istantanea, viene dall’immaginazione, la stessa che ha un bambino che gioca, e credo che questo sia l’unico modo per creare piccoli mondi. In questo mi sento fortunato perché, pur facendo sacrifici, pur sottraendo tempo alla mia famiglia, non ho mai pensato che la mia fosse una fatica ma un vero e proprio divertimento.

Quanto tempo richiede la realizzazione di un presepe di medie dimensioni?
È proprio per questo motivo che non ho mai dato importanza al tempo, credo che nei lavori creativi sia relativo. Nel mio caso, per esempio, ci sono giorni nei quali riesco a fare molto più di quello che avevo prospettato. In altri, invece, capisco che è meglio lasciare tutto e godermi le bellezze del territorio. Poi, ci sono le notti… anche quelle dovrebbero essere conteggiate? Notti in cui non dormi per la paura che quella scintilla, quell’idea si possa perdere nel sonno. Notti che passi in bottega, turbato da una incertezza che non riesci a risolvere, e quindi togli e posizioni freneticamente pezzetti di creta fino a trovare la giusta soluzione. Comunque, di tempo ce ne vuole, anche se resta l’ultimo dei miei problemi.

Ha appena ottenuto il titolo di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, riconoscimento biennale della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte a maestri artigiani che si distinguono per talento, saper fare e altissima competenza. Com’è stato ricevere questo riconoscimento?
Avere questo riconoscimento a cinquantotto anni, a quaranta dall’iscrizione alla Camera di Commercio di Napoli, mi ha fatto capire che, in fondo, un segno lungo il mio cammino l’ho lasciato, e questo mi rende immensamente felice e orgoglioso. Allo stesso tempo, sento ancora di più il peso della responsabilità nei confronti di questo straordinario mondo dell’artigianato artistico. Paradossalmente, soprattutto nei luoghi turistici, un turismo intensivo ha sconvolto l’identità dei territori e tanti artigiani, anche per sopravvivere, si sono trovati a trasformare le loro produzioni basandole più sulla quantità che sulla qualità. Ora, ancora più di prima, farò di tutto per non vendermi alle mode e alle circostanze.

Organizza corsi e laboratori per tramandare quest’arte, o sarebbe disposto a trasmettere le sue conoscenze a chi volesse apprendere il mestiere?
Lo faccio da anni, soprattutto nelle scuole, spesso aiutato da altri amici artigiani. In questi ultimi anni, quello che manca di più è il racconto. Da una parte c’è una carenza di figure carismatiche, che sappiano raccontare, e dall’altra c’è chi non ha più voglia di ascoltare: soprattutto i giovani, stanchi di essere traditi da una società sempre più distratta. Ecco, il maestro artigiano può – attraverso i suoi gesti, la sua passione, la sua storia – trasmettere i suoi saperi e alla fine anche questo può diventare un’arte, l’arte del tramandare. Troppo spesso, anche in un recente passato, la tomba dell’artigiano è divenuta – per gelosia o per ignoranza – la cassaforte dei suoi segreti, ed è così che tante attività sono scomparse. Questo non possiamo più permettercelo. Dobbiamo trovare un modo per entrare nel mondo della scuola o cercare di accogliere i ragazzi nelle nostre botteghe, provando in tutti i modi ad appassionarli, anche avvicinandoci al loro linguaggio.
Immagino un luogo dove possano convivere più laboratori, nei quali maestri liutai, orafi, ceramisti, ebanisti, intarsiatori possano lavorare ed essere osservati, perché tutto inizia guardando mani che lavorano. Il mio ricordo va alle parole dello scrittore Mario Stefanile, che così racconta una sua visita a San Gregorio Armeno: ”poi guardavo gli artigiani più giovani, dal volto patito, gli adolescenti dagli occhi cupi di olive greche, la sciarpa di lana rossa intorno al collo gracile, la tosse dentro il petto: e sognavo di essere uno di loro, di stare anch’io a manipolare la creta, ad appallottolarla, a stenderla, a farle assumere movimento e vita, grazia e dolcezza”.